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QUALE RESPONSABILITA’ DEL SOSTITUITO IN CASO DI INADEMPIMENTO TRIBUTARIO

A mezzo della presente si vogliono esprimere alcuni rilievi, assolutamente preliminari, in merito a possibili profili di responsabilità, o meglio co-responsabilità, tributaria sorgenti in capo al sostituito di imposta in conseguenza della violazione degli obblighi di legge ai quali è sottoposto il sostituto.

Il tema, da lungo discusso, è quello vertente sulla solidarietà dell’obbligazione tributaria che, per una parte della giurisprudenza di legittimità, invero minoritaria, legherebbe le sorti, tanto del sostituito quanto del sostituto, nei confronti delle pretese dell’Amministrazione in considerazione di una, asserita, originalità dell’obbligazione tributaria in capo al sostituito.

Tale tesi ha trovato la sua massima conclamazione nel pronunciamento della Suprema Corte del 16 giugno 2006 con la decisione n. 14033.

Prima di percorrere, in breve dettaglio, le problematiche che qui ci interessano, come quella della possibilità, o meno, di intravvedere nella relazione tra sostituito e sostituto un rapporto incardinato sui binari della responsabilità solidale, ovvero quella della doppia tassazione, piuttosto che quella concernente il divieto di sanzioni indirette in materia tributaria e tutte le altre, ampiamente trattate sia dalla più qualificata dottrina che da numerosi pronunciamenti delle Commissioni provinciali e regionali, riservandoci di affrontarle, tutte, con dovizia di analisi in caso di radicamento di contenzioso, rileviamo, da subito, come la vexata questio che qui ci occupa abbia trovato una importante chiarificazione con la circolare ministeriale n. 86/E del 2009.

In sede di tale documento l’Amministrazione Finanziaria fuga, in maniera chiara e netta, qualsiasi dubbio circa la legittimità dello scomputo delle ritenute effettivamente subite dal contribuente, sostituito, ed in riferimento alle quali non sia stata rilasciata, dal sostituto, la certificazione prescritta dalle norme rilevanti in merito e segnatamente quelle di cui al DPR n. 322 del 1998 all’articolo 4 commi 6 bis e ter.

Il dato normativo appena riportato, opportunamente rubricato “dichiarazione e certificazione dei sostituti di imposta”, facendo espresso riferimento, certamente non casuale, alle ritenute “operate” fa emergere, expressis verbis, la natura meramente dichiarativa della certificazione del sostituto.

Tale assunto si inserisce, poi, con piena coerenza logica nell’altra previsione “di sistema” compiuta dal legislatore nella regolamentazione, nell’ambito dell’assetto generale del diritto tributario, del  frangente probatorio in riferimento al quale non si pone alcun limite ai mezzi mediante i quali il contribuente riesca a dar prova della “incisione patrimoniale” da lui effettivamente subita a seguito di ritenute, anzi “operate” , ma poi non versate dal sostituito.

In materia tributaria il principio della libera disponibilità dei mezzi probatori, come rilevato già da migliore dottrina, può addirittura definirsi come “immanente”.

Tale immanenza è ancor più evidente nel caso di specie in considerazione del fatto che il sostituito non gode di alcun poter di intervento nella sfera giuridica del sostituto non potendo fare altro, tutt’al più, che sollecitare la trasmissione della documentazione che tale ultimo deve redigere.

Il dato normativo testè riportato, e l’interpretazione che in questa sede del medesimo viene effettuata, trova pieno conforto in un ulteriore dato “sistemico” ovvero l’Articolo 22, comma 1, lettera c), del DPR 917/1986 che non impone, in alcun modo, ai fini dello scomputo legittimo delle ritenute da parte del sostituito, che tale ultimo dia prova dell’effettivo versamento da parte del sostituto.

Tale prova potrebbe in alcuni casi divenire così difficile da trasformarsi in “diabolica” ad esempio nei casi di sostituto scomparso, defunto o, come nel nostro caso, fallito.

D’altra parte questa interpretazione, sistematicamente corretta, del dettato dei riferimenti normativi sopra citati si inserisce all’interno di un “solco” interpretativo tracciato dal Ministero già da tempo immemore ed in particolare a far data dalla risoluzione del 31 ottobre 1977 n. 8/1034, nonché quella del 26 maggio del 1981, n. 8/850, che in maniera netta ed inequivocabile superano la rigidità di un formalismo interpretativo che, per altro, non trova alcun supporto o, per meglio dire, appiglio, normativo ed ammettono, tout court, la piena equivalenza tra la certificazione per cosi dire “tipizzata” e tutte le altra forme di supporto documentale che possano dimostrare efficacemente che le somme effettivamente percepite dal sostituto sono, appunto, al netto della ritenuta “operata”(!) dal sostituto.

Altro dato normativo, sempre per continuare a muoverci all’interno del perimetro della più stretta interpretazione letterale, che rappresenta il primo criterio per arrivare a discernere la volontà del legislatore, che dobbiamo prendere in considerazione è quello di cui all’Art. 36 ter del DPR 600/73 che, appunto letteralmente, attribuisce agli uffici il “potere di escludere lo scomputo delle ritenute d’acconto non risultanti dalle dichiarazioni dei sostituti di imposta, o dalle certificazioni richieste ai contribuenti”.

In quella locuzione alternativa, o, risuona, limpida e forte, la rilevanza assolutamente autonoma ed indipendente dei due tipi di documentazione, quella “tipica” e quella “atipica”.

Tale impostazione normativa, e l’interpretazione letterale della medesima sono poi, e non potrebbe essere diversamente, in perfetta coerenza con la natura squisitamente privatistica del rapporto che intercorre tra sostituto e sostituito. Ne segue che la certificazione rilasciata dal primo non potrebbe mai assumere valenza e funzione costitutiva di una situazione giuridica, come il diritto allo scomputo, in capo ad un determinato soggetto, come, in questo caso, il sostituito.

Infine anche la disciplina penalistica concorre a corroborare la ricostruzione di sistema qui esposta.

L’articolo 10-bis del DLGS 74/2000 è, in tutta evidenza, come rilevato dalla migliore dottrina e da una giurisprudenza assolutamente concorde, una disposizione che riguarda solo ed esclusivamente il sostituto e non già il sostituito e non attribuisce, in alcun modo, rilevanza costitutiva alla documentazione “tipizzata” che il sostituto deve rilasciare ed anzi, ragionando a contrariis, si può ben argomentare che quando il legislatore abbia voluto attribuire ad una data documentazione una valenza particolare, costitutiva di una posizione giuridica in capo ad un determinato soggetto, lo ha fatto in maniera chiara ed espressa senza lasciar spazio ad alcun dubbio interpretativo.

Passando oltre i chiari e rilevanti dati normativi appena esposti e tralasciando, almeno in questa sede, tutti i rilievi in tema di doppia imposizione, tassatività della responsabilità solidale in ambito tributario, violazione delle disposizioni dello Statuto del Contribuente, inammissibilità di sanzioni improprie nell’ordinamento tributario se non espressamente previste, ruolo della colpa nell’adempimento dell’obbligazione tributaria ecc. ecc., si vuole, per concludere, mettere in rilievo le implicazioni sociali che la “deriva”, come propriamente definita dalla migliore dottrina, della pronuncia costituzionale del 16 giugno 2006, presenta e palesa con un carattere così macroscopico da essere state rilevate non solo dai commentatori più attenti e qualificati ma, anche, da amplissima giurisprudenza di merito che ha finito per sostituirsi alla Suprema Corte nella funzione di nomofilachia che dovrebbe essere appannaggio di tale ultima.

L’interpretazione fornita dalla Corte di legittimità, infatti, finisce per distorcere ed incrinare il rapporto che intercorre fra sostituito e sostituto tramutandolo da un fisiologico conflitto di interessi, questo infatti lo scopo precipuo di tale sistematizzazione legale, in un rapporto, invero, patologico, dove il sostituto, lungi dall’assolvere quella funzione di garanzie di corretta e pronta riscossione che l’ordinamento gli assegna, finirebbe per avere una totale posizione di supremazia nei confronti del sostituito che si troverebbe completamente “inerme” nei confronti del sostituto.

Portando tale impostazione, ovvero quella della solidarietà tributaria basata sulla originalità della medesima in capo al sostituito, alle estreme conseguenze potremmo arrivare ad ipotizzare casi dove il sostituto potrebbe essere indotto a non adempiere al versamento dell’imposta trattenuta confidando sul fatto che il sostituito possa essere “esperito” per primo da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Il sostituto si troverebbe cosi nella possibilità di detenere delle somme a titolo di provvista riconosciutagli ex lege per l’adempimento di obblighi tributari che potrebbero degradare e scolorare fino a diventare assolutamente eventuali ed azionati in sede di una, invero assai dubbia, azione regresso da parte del sostituito.

La ragion di gettito che impregna di se tutta la ricostruzione dogmatica e sistematica della “deriva” giurisprudenziale di legittimità travolge dunque, non solo la logica dell’istituto e alcune travi portanti del  nostro sistema tributario ma, addirittura, si spinge fino a realizzare dei presupposti di fatto che andrebbero a far nascere situazioni di iniquità e disparità sociale non controbilanciate da alcun interesse pubblico.

Ai fini del caso specifico che qui ci occupa è ben evidente, come emerge da tutta la documentazione prodotta, che il contribuente-sostituito è stato ben intaccato nella sua capacità reddituale dalla pretesa tributaria sotto la forma della ritenuta “operata” dal sostituto.

In base a tutto quanto sopra espresso è evidente che la documentazione bancaria e contabile allegata alla presente è da considerarsi prova efficace della effettiva capacità contributiva del sostituto che a nulla più può essere chiamato a versare né a titolo di obbligazione principale né accessoria a quella di altro soggetto.

Confidando nella congruenza e logica delle, preliminari, argomentazioni qui tracciate nonché nell’adesione alla recente, e ben argomentata, risoluzione ministeriale sopra citata siamo certi dell’accoglimento delle motivazioni qui addotte e della corretta valutazione della documentazione prodotta.

SPONSORIZZAZIONE: FISCO NON PUÒ SINDACARE LE SCELTE IMPRENDITORIALI!

E’ nullo l’accertamento fiscale con il quale l’Amministrazione finanziaria contesta la deducibilità di costi derivanti da spese pubblicitarie, in quanto la scelta di investire nella sponsorizzazione dell’azienda rientra tra “le strategie e le scelte dell’imprenditore, che si assume il rischio dei relativi costi”.

Il contenzioso nasceva dall’impugnazione di due avvisi di accertamento (per gli anni di imposta 2007 e 2008), a fronte dei quali l’Agenzia delle Entrate riprendeva a tassazione i costi di pubblicità sostenuti dal ricorrente rispettivamente per €. 58.000,00 ed €. 42.000,00 a titolo di Iva, Ires ed Irap, oltre sanzioni ed interessi maturati e maturandi.

Il contribuente affermava la pacifica inerenza e deducibilità di detti costi, comprovati dal contratto di sponsorizzazione, dalle fatture, dalle foto degli eventi sportivi pubblicizzati, nonché dall’incremento sia del ricavato, sia dell’acquisizione di nuova clientela.

L’Ufficio, invece, deduceva il difetto di inerenza, il mancato assolvimento dell’onere della prova a carico della stessa società, nonché la condotta anti – economica e l’inesistenza del nesso strumentale di tali costi con l’esercizio di impresa.

La decisione dei giudici: la prova della non inerenza e indeducibilità grava sull’Amministrazione finanziaria. Inesistenza della fattispecie di contratto simulato ed abuso di diritto.

Come già illustrato precedentemente, la Commissione competente ha dunque accolto il ricorso stabilendo la totale infondatezza circa la non inerenza e indeducibilità dei costi pubblicitari, giacché lo stesso Ufficio non ha provveduto a contestare “né l’effettività della spesa […] documentata dalle fatture prodotte […] né che tale costo[…] sia una spesa di pubblicità e non invece una spesa di rappresentanza (v. Cass., Ord., n. 3422/12)”.

Ad ogni buon conto, prosegue la motivazione dei giudici, la spesa di sponsorizzazione per pubblicizzare la ragione sociale della società, in particolare, “la valutazione della congruità” o “sproporzione” del costo per la produzione del reddito dell’impresa, “compete all’autonomo giudizio dell’imprenditore, non avendo l’Ufficio contestato né l’entità della spesa e né la sua finalità”.

In definitiva giudici lucchesi – sulla base di un orientamento pro contribuente già espresso in precedenza dalla stessa Commissione (n. 160/05/12 e n. 110/03/12) hanno osservato che non possono sussistere “elementi sufficienti per qualificare il contratto di pubblicità come simulato, né per giudicare la fattispecie in esame come un’ipotesi di abuso di diritto ai fini elusivi”.

STAMPA DI UNA PAGINA WEB PRODOTTA IN GIUDIZIO E LIMITI DELLA PROVA

La Cassazione civile, sez. lavoro , con sentenza 2912/04 ha affermato che la copia di una “pagina web”  stampata su carta ha valore di prova solo se è stata raccolta con le dovute garanzie.

Per il fatto che le informazioni prese dalla rete sono per loro natura volatili e suscettibili  di continua trasformazione  deve escludersi, secondo la predetta sentenza, che sia documento utile ai fini di prova una copia di “pagina web” su supporto cartaceo che non risulti essere stata raccolta con garanzie di rispondenza all’originale e di riferibilità a un ben individuato momento.

Il problema si pone anche nel processo penale ad esempio quando deve presentarsi una querela per diffamazione avvenuta tramite scritti pubblicati su un sito internet.

Prima di procedere alla querela dunque sarebbe opportuno procurarsi le prove di ciò che si andrà a dichiarare. Questo soprattutto perché le pagine web sono sempre modificabili dall’autore, dunque c’è rischio che dopo aver sporto querela non si sia più in grado di dimostrare quanto esposto.

Però c’è da dire che una stampa o uno  screenshot della pagina in questione potrebbero non essere sufficienti in quanto alterabili, dunque la loro corrispondenza all’originale è facilmente contestabile dalla controparte nel corso della causa.

Un rimedio a questa problematica potrebbe essere quello di effettuare una copia conforme, con l’assistenza del notaio in qualità di pubblico ufficiale, il quale dovrebbe formare una copia autentica della pagina web, cioè autenticare la riproduzione meccanica fornita tramite stampante.

Il notaio potrebbe certificare non solo le pagine web di testo ma anche quelle con contenuti multimediali come foto (per evitare ad esempio le problematiche del furto d’identità), video, audio.

Sul punto si è espressa la Cassazione ritenendo valide e ammissibili come prove i contenuti web certificati dal notaio  con tale procedura.

VENDITA DI IMMOBILI ABUSIVI: CARENZA URBANISTICA E NULLITA’

Con la sentenza n. 25811 del 2014 la Cassazione ha affermato che “gli atti di trasferimento di diritti reali su immobili sono nulli, ai sensi dell'art. 40, secondo comma, della legge 28 febbraio 1985, n. 47, sia nel caso in cui gli immobili oggetto di trasferimento non siano in regola con la normativa urbanistica (nullità di carattere sostanziale), sia quando dagli atti di trasferimento non risulti la circostanza della regolarizzazione in corso (nullità di carattere formale)”.

Per contrastare l’abusivismo il legislatore del 1985 aveva introdotto l’art. 40 della legge n. 47 che sancisce la nullità degli atti di trasferimento di diritti reali relativi ad edifici che siano carenti del titolo abilitativo o della concessione in sanatoria, oppure dell’allegazione della domanda di condono. Tuttavia, è prevista una scialuppa  di salvataggio costituita dalla possibilità di confermare detti atti di trasferimento con un successivo atto che integri la documentazione mancante o la menzione omessa, purché redatto nella stessa forma del precedente, ovvero per atto pubblico.

L’indirizzo fino ad ora prevalente ha sostenuto che si trattasse di nullità di tipo formale, desumibile dalla circostanza che fosse sufficiente che l’atto pubblico contenesse la autodichiarazione urbanistica dell’alienante, a prescindere dalla sua veridicità.

Recentemente si è verificato un mutamento interpretativo e la Suprema Corte ha affermato che la nullità prevista dall’ art. 40 è di tipo sostanziale in quanto, se lo scopo del Legislatore era stato quello di rendere incommerciabili gli immobili abusivi, la nullità formale non impediva il valido trasferimento di tali immobili, dovendo poi le parti intraprendere l’iniziativa sul piano dell’inadempimento contrattuale.

Pertanto, con la nullità sostanziale la parte lesa potrà intraprendere un’azione per far dichiarare la nullità, imprescrittibile, le cui conseguenze travolgerebbero anche i successivi contratti, avendo quindi una maggior tutela, mentre sostenendo la tesi della nullità formale alla parte lesa restava solo la possibilità di proporre una domanda di risoluzione contrattuale per inadempimento